PERCHE' TANTE SCUOLE?Il sutra I,1 del primo commento agli Yoga Sutra di Patanjali, lo Yoga-Bhashya di Vyasa, afferma: "Yoga è estasi" (yogah samadhih). Questa sentenza vuole illustrare l'essenza dello Yoga, e nello stesso tempo è una spiegazione della grande varietà di stili, tecniche e interpretazioni che l'antica disciplina mette in mostra. Se uno è lo scopo, il samadhi, molte possono essere le vie per raggiungerlo, posto che ognuna di esse non perda di vista l'obiettivo. Perciò Georg Feuerstein, nel suo monumentale "The Yoga tradition", il lavoro più completo sulla storia dello Yoga, afferma: "Yoga is a spectacularly multifaceted phenomenon, and as such it is very difficult to define because there are exeptions to every conceivable rule (lo Yoga è un fenomeno poliedrico in modo spettacolare, e in quanto tale è molto difficile da definirsi poiché vi sono eccezioni per ogni regola concepibile)".
Si possono trovare scuole dove l'accento è posto sulla pratica rituale della devozione (Bhakti Yoga) e le posture hanno importanza solo come mezzo per il rilassamento e per mantenere il corpo in buona salute. Oppure altre, dove si pratica lo studio del Vedanta, una rigorosa disciplina filosofica (Jnana Yoga), e le posture non hanno alcuna importanza o quasi (almeno a livello superficiale). Nel Raja Yoga, poi, si praticano molte tecniche diverse sulla base degli otto livelli (ashtanga) degli Yoga Sutra di Patanjali, mentre se si frequenta una scuola di Ashtanga Yoga nello stile Krishnamacharya-Pattabhi Jois, pare che, almeno all'inizio, l'attenzione sia solo sulla sequenza delle posture (vinyasa). Nel sistema Iyengar sono poi molto importanti l'equilibrio e l'allineamento, ma anche qui spesso oltre le posture non si va. Non solo, all'interno degli stessi stili è possibile fare esperienze molto diverse fra loro, e frequentare corsi con lo stesso nome ma completamente differenti. L'allievo alle prime armi può a volte rimanere disorientato di fronte a tale varietà. Un'analisi più profonda ci porta però a vedere proprio nella poliedricità la forza e la vivacità dello Yoga, e forse anche a capire un po' meglio il motivo della sua ampia diffusione nell'Occidente. Esso infatti, a ben guardare, è l'esempio di un modo di trasmissione della conoscenza che nella nostra cultura, dominata dal paradigma scientifico, sembra scomparso, ossia la trasmissione da maestro a discepolo. Più che la tecnica e le regole, infatti, in tutte le scuole di Yoga (quelle che non hanno perso di vista l'obiettivo di cui sopra) riveste molta importanza l'esistenza di una figura, o di più figure, che vengono considerate, anche solo per la loro esperienza, in qualche modo depositarie di una conoscenza altrimenti difficilmente conseguibile. LA TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZASi può ricorrere ad un esempio per chiarire i termini della questione, essenziale per intraprendere una pratica consapevole. Le moderne scienze dell'educazione e i programmi scolastici in Occidente cercano di oggettivare la trasmissione del sapere e della cultura, prescindendo sempre più dalla figura dell'educatore e del maestro. L'insegnante deve garantire di trasmettere determinati contenuti, spesso in un determinato modo, poiché non sappiamo chi egli sia e dobbiamo garantirci che il processo avvenga comunque, e che la cultura e l'educazione siano tramandate. In ogni dove assistiamo all'appiattimento del sistema scolastico su questo dogma, ed è inutile dilungarsi. Tutti sappiamo invece per esperienza che nella nostra educazione è stato molto importante un certo insegnante, non solo perché ci insegnava certi contenuti (che poi, a ben vedere, con gli attuali mezzi di comunicazione ognuno è in grado di apprendere da sé - si vedano i vari progetti per introdurre il "docente robot") ma per chi era come uomo, per la pratica di vita che trasmetteva, per la sua dimensione etica, o per come amava ciò di cui parlava. La conoscenza stessa che l'insegnante ha dei contenuti del sapere, umanistico o scientifico che sia, è spesso, se non sempre, una mera conseguenza di queste caratteristiche semplicemente umane.
Nelle varie scuole di Yoga è questa modalità che prevale, più che le certificazioni, gli attestati, l'appartenenza a un lignaggio. E' così pienamente comprensibile l'enorme varietà di insegnamenti diversi, ed anche perché le persone siano attirate da qualcosa che mantiene un'essenza di autenticità. YOGA E "FITNESS"Accade però che il Moloch della tecnica cerchi di inghiottire tutto ciò che di buono si presenta di fronte alle sue fauci, e così assistiamo al proliferare di corsi di Yoga presentati sotto l'aspetto del "fitness". Spesso con tale termine si denota solo la pura demenzialità (fatevi un giro al "Festival del fitness" di Rimini, anzi risparmiate i soldi), oppure un nuovo affare per l'industria delle palestre. Lo Yoga trova così posto nel miraggio pubblicitario dell'eterna giovinezza per poter continuare a godere dei piaceri nella Bengodi degli ipermercati, per poter continuare più a lungo ad essere un buon "consumatore". Quando vedo questo atteggiamento mentale mi ricordo sempre delle occhiaie di Sri Aurobindo, di certo uno degli uomini più importanti del '900, un grande Yogin e un santo che ha scritto libri fondamentali e trasmesso un sapere nuovo e antico allo stesso tempo, ma che non era certo l'immagine del "fitness", così come tanti altri grandi yogin provati da decenni di disciplina spirituale e di esperimenti su di sé, sul proprio corpo e sulla propria mente, per stabilizzarsi in quel samadhi che era il fulcro del loro Yoga.
Anche il modo in cui la classe medica considera lo Yoga appartiene, seppure in modo molto meno demenziale, allo stesso paradigma tassonomico: il medico sempre più spesso consiglia lo Yoga per problemi vari, con buone intenzioni ma di fatto limitandolo drasticamente e snaturando la sua essenza, come se fosse un rimedio regionale all'interno del sistema della medicina allopatica, cui pertiene la vera conoscenza. Tutto va bene. E' vero che lo Yoga, Iyengar, Ashtanga, Sivananda e tanti altri, migliora la salute, a volte risolve problemi di ansia, depressione, rende più forti, flessibili, resistenti. Chi vuole capire perché e con quale scopo, chi vuole capire il senso profondo della propria pratica, e questo è il significato di queste note, non si fermi però alla superficie. Indaghi sulle origini, su quel samadhi che Vyasa indicava come il perno della giostra, come il campo magnetico unificatore di tutti i diversi Yoga. ENSTASICon la parola "enstasi" Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, nel suo classico studio "Tecniche dello Yoga", ha inteso tradurre il termine sanscrito "samadhi". Samadhi significa, secondo lo stesso Eliade, "unione, totalità; assorbimento in qualcosa, concentrazione totale dello spirito, congiunzione". La traduzione "enstasi" è in chiaro contrasto con la traduzione "estasi", ossia ek-stasis, uscire fuori, preferita dalla tradizione mistica occidentale da Plotino in poi. Si intende porre l'accento proprio sul fatto che lo yogin, al culmine della concentrazione interiore, dopo aver portato a compimento la disciplina del corpo e della mente, si trova sì fuori di sé, del suo piccolo sé identificato con le esperienze e con le memorie corporee, ma in realtà questa uscita e questa espansione accadono all'interno della sua stessa coscienza. "Chit", la coscienza, appare allora come un'unità indistinta con "sat", l'essere, e "ananda", la beatitudine. "Satchitananda", lo stato dell'essere umano rivelato dal samadhi, è certamente una delle più belle espressioni tramandate dalle Upanishad per definire l'esperienza del divino. Si può pensare di avvicinarsi a una tale esperienza solo imparando a calmare il corpo, il respiro e la mente, per lasciar rifulgere la coscienza di luce propria.
SHUNYAM" Tad eva artha matra nirbhasam svarupa shunyam iva samadhih": questo il sutra III,3 di Patanjali che contiene la definizione del samadhi, l'ottavo anga, membro, dell'Ashtanga Yoga. Tentiamo una traduzione: quando quella stessa cosa rifulge sola come se fosse vuota della propria stessa essenza, ciò è samadhi. Artha è l'oggetto, il luogo. Quando la meditazione concentrata su "quello" è tale che l'oggetto stesso o luogo di meditazione appare come vuoto (shunyam) di forma materiale (svarupa), allora si ha l'enstasi, l'assorbimento dello yogin nel suo stesso Sé, nell'origine della coscienza che appare allora come Satchitananda. La parola shunyam, vuoto, è centrale nella storia dello sviluppo del Vedanta e del buddismo mahayana. E' il vuoto pieno, il vuoto delle forme particolari in cui risiede la pienezza dell'essere.
La consapevolezza dello shunyam, del vuoto, è fondamentale nella pratica dello Yoga. Il corpo si allunga ed acquista flessibilità per quanto, praticando, cominciamo a vederlo come un vuoto, lo lasciamo essere eliminando lo sforzo e permettendo l'allungamento e la trasformazione. Gradualmente cominciamo a conoscere che ogni sua tensione era collegata a una tensione mentale. Con il respiro controllato, in armonia con i movimenti, la mente e il corpo ritrovano un'armonia che potrà consentire il samadhi, la riscoperta di sé. STABILE E FELICECosì il famoso sutra II.46 definisce la postura: sthira sukham asanam. Normalmente viene tradotto in questo modo: la postura (asana) deve essere stabile e confortevole. La parola sukham però, in sanscrito, ha un significato più forte di "confortevole", che appartiene a un ambito semantico più affine forse al fitness che alla disciplina Yoga. E' una delle interpretazioni più controverse, spesso causa di differenze fra diverse scuole. Sukham, in molti contesti, fa proprio riferimento alla felicità, alla gioia. Mentre stira, oltre che stabile, significa immobile, senza movimento. La postura è una gioia immobile, una felicità senza movimento. Quando si è nella postura il respiro è calmo e la mente si placa, aprendosi al vuoto della meditazione e del samadhi. Come si raggiunge una tale condizione? Ovviamente, soprattutto all'inizio, la postura è tutt'altro che facile e senza sforzo. E' un graduale processo di abbandono, di rilascio, di gelassenheit, come diceva anche Heidegger, in cui aumentano il nostro equilibrio, la presenza a sé, il controllo e la calma. Ma qui occorre necessariamente lasciare la parola alla pratica.
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E come una tartaruga ritrae dentro di sé le mani, i piedi, la testa, così lo yogin che ha riempito il suo corpo con l'aria inspirata ritrae in sé i sensi. Quando sono chiuse le nove porte il soffio inspirato si solleva, poi resta immobile al centro del corpo come la fiamma d'una lampada. Lo yogin è allora nel deserto, nella pace. Ivi troverà la certezza, poiché valuterà tutto secondo i criteri dell'anima.
YOGATATTVA-UPANISAD , 141-144 Dalla postura conseguono fermezza di corpo e di mente, libertà dalle malattie ed elasticità delle membra HATHA YOGA PRADIPIKA I.17 APPROFONDIMENTI (in costruzione) Per una pratica consapevole Asana negli Yoga Sutra Asana nello Hatha Yoga Pradipika Asana nella Gheranda Samhita I mantra dell' Ashtanga Yoga Patanjali - Ananta Pranayama |